“Vivo con i bambini, con le educatrici, con i genitori e gli insegnanti tutti i giorni, mi occupo di educazione, pedagogia e psicologia da molto tempo, ma ci sono incontri e occhi che mi hanno cambiato la vita, l’incontro con due mamme che mi ha fatto scoprire una dimensione spesso dimenticata, anzi equivocata”. Inzia così il racconto di Antonella Elena Rossi, psicopedagogista, comandata Miur, responsabile del Progetto Opera, Osservatorio per l’educazione al rispetto e all’autostima, e direttore scientifico della onlus La Stella di Daniele per introdurci la sua esperienza con l’autismo. “Parlo di mamme e non di madri perché la mamma ci riporta alla vita, mentre la madre all’educazione e queste due donne coraggiose, hanno partorito i loro figli più volte e più volte. Sto parlando di bambini che sono affetti dalla sindrome dello spettro autistico, una sindrome con mille sfaccettature e problematiche che colpisce un bambino su 77 con una grande prevalenza tra i maschi. La prima mamma è una donna giovane, ma con il viso segnato dalla consapevolezza che il proprio bambino ha qualche difficoltà, ma tutti intorno a lei negano. Io che faccio la supervisione in un nido, lo vedo seduto, con degli occhi tutti da riempire. L’educatrice mi guarda smarrita e mi dice “Mattia è spaventato da tutto, dai rumori, da un colore di un piatto, dai movimenti bruschi, non parla e a volte si butta per terra e non riusciamo a calmarlo”. Un giorno una mamma di un altro bambino mi dice: “ma quanti capricci fa questo bambino?”. Io capisco abbastanza velocemente “non sono capricci, è angoscia. Dobbiamo costruire uno spazio educativo, fisico e affettivo per lui”. Cominciamo dalla famiglia e dopo un colloquio ci diamo da fare per sostenerla nel lungo percorso della diagnosi, dei colloqui con il neuropsichiatra infantile, con le lunghe attese in ospedale. Sì perché dopo la diagnosi la famiglia cambia, le madri spesso sono costrette a rinunciare al lavoro, perché le terapie sono percorsi che durano anni. Più precocemente si inizia maggiori sono le possibilità per questi ragazzi di avere una qualità di vita migliore. Ogni bambino è diverso dall’altro. Sono ragazzi che comunicano, ma il loro mondo è diverso, come diverse sono le loro percezioni, la loro visione del mondo. Non sono loro a non essere adatti, siamo noi che non siamo pronti ad accoglierli. È come se pretendessimo che le porte si possano aprire con la stessa chiave. Dobbiamo trovare la chiave giusta e condividerla a scuola, con gli amici.